I combattimenti di tori - Graziella Martina - In Spagna con Mérimée

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Madrid, 25 ottobre  

Signore,
le corride sono ancora molto popolari in Spagna, ma fra gli Spagnoli di classe elevata sono pochi quelli che non provano una specie di imbarazzo ad ammettere la propria predilezione per un genere di spettacolo certamente assai cru­dele. Così, essi cercano molte ragioni serie per giustificarlo. In primo luogo, è un divertimento nazionale e in un paese come la Spagna, dove il patriottismo di facciata è forte quanto in Fran­cia, la parola nazionale basterebbe da sola a giu­stificarlo. Poi, essi dicono, i Romani, che faceva­no combattere uomini contro uomini, erano molto più barbari di noi. Infine, aggiungono gli economisti, l'agricoltura trae vantaggio da que­sta usanza, perché l'alto prezzo dei tori da com­battimento impegna i proprietari ad allevarne numerose mandrie.

Bisogna sapere che non tutti i tori hanno la caratteristica di attaccare uomini e cavalli e che su venti se ne trova appena uno abbastanza bravo da figurare in un circo. Gli altri diciannove sono destinati all'agricoltura. Il solo argomento al quale sarebbe impossibile ribattere, ma che non si ha il coraggio di usare è che, crudele o no, questo spettacolo è così inte­ressante ed avvincente e produce delle emozioni così forti che, una volta superato l'effetto della prima volta, non vi si può più rinunciare. Gli stranieri che entrano per la prima volta nel cir­co, con un certo orrore e solo per adempiere con scrupolo ai propri obblighi di viaggiatori, gli stranieri, dicevo, ben presto si appassionano quanto gli Spagnoli ai combattimenti di tori. A dispetto di ogni considerazione umanitaria, biso­gna convenire che la guerra, con tutti i suoi orrori, ha un fascino straordinario, soprattutto per quelli che la osservano stando al riparo. Sant'Agostino racconta che da giovane aveva un'estrema ripugnanza per i combattimenti dei gladiatori e non vi aveva mai assistito di perso­na. Spinto da un amico ad accompagnarlo a una di queste maestose carneficine, aveva giurato di tenere gli occhi chiusi per tutto il tempo dello spettacolo. All'inizio, egli mantenne la promes­sa, sforzandosi di pensare ad altre cose, ma quando la folla gridò nel veder cadere un cele­bre gladiatore, egli aprì gli occhi e non riuscì più a richiuderli. Da allora e fino al momento della sua conversione, egli amò il circo appassionata­mente.

Dopo aver citato un santo così grande, mi vergogno di parlare di me stesso. Voi sapete che non ho i gusti di un antropofago. La prima vol­ta che entrai nel circo di Madrid, temevo di non sopportare la vista del sangue che vi scorreva in abbondanza e diffidavo della mia sensibilità. Avevo paura che mi avrebbe reso ridicolo davan­ti agli ammiratori incalliti, che mi avevano ospi­tato nel loro palco. Non accadde nulla di tutto questo. Il primo toro apparve, fu ucciso ed io non pensavo più ad uscire. Passarono due ore senza intervallo ed io non ero ancora stanco. Nessuna tragedia al mondo mi aveva mai inte­ressato tanto. Durante il mio soggiorno in Spa­gna, non sono mai mancato a un solo combatti­mento. Riconosco, arrossendo, che preferisco i combattimenti che si concludono con la morte del toro a quelli in cui ci si contenta di tormen­tare l'animale che porta delle palline sulle corna.
C'è la stessa differenza che esiste fra i combatti­menti a oltranza e i tornei fatti con lance muni­te di puntale. I due tipi di gara si assomigliano parecchio ma, nella seconda, il pericolo per l'uomo è pressoché nullo.

Il giorno prima del combattimento è già festa. Per evitare incidenti, i tori vengono con­dotti nella scuderia dell'arena (encierro) di notte e la vigilia essi pascolano in un prato poco lon­tano da Madrid (el arroyo). Andare a vedere questi tori che, spesso, vengono da molto lonta­no è meta di passeggiate. Un gran numero di vetture, di cavalieri e di pedoni si recano all'arroyo. In quest'occasione, molti giovani indossa­no l'elegante costume da majo andaluso e ostentano una magnificenza e un lusso che da noi sarebbe impossibile, data la semplicità del nostro abbigliamento ordinario. Questa passeg­giata non è affatto senza pericolo: i tori sono liberi e gli addetti non sempre riescono a farsi ubbidire. Evitare di farsi incornare, è un proble­ma che riguarda i curiosi.

In quasi tutte le grandi città della Spagna vi sono delle arene (plazas) costruite in modo mol­to semplice, per non dire grossolano. Di solito sono delle grandi baracche di assi e l'anfiteatro di Ronda, che è costruito in pietra, viene citato come esempio di una meraviglia. E il più bello di Spagna, come il castello di Thunderten Tronkh era il più bello della Westfalia, perché aveva una porta e delle finestre. Ma che importa la decora­zione del teatro quando lo spettacolo è eccellen­te?
L'arena di Madrid può contenere circa sette­mila spettatori, che entrano ed escono senza confusione da un gran numero di porte. Ci si siede su delle panche di legno o di pietra. Alcu­ni palchi hanno delle sedie e quella di Sua Mae­stà Cattolica è la sola ad essere decorata in modo abbastanza elegante.

L'arena è circondata da una robusta palizzata, alta circa sei piedi, su due lati della quale, a due piedi da terra, corre una sporgenza di legno. E una specie di rialto o di staffa, che serve al tore­ro inseguito per appoggiare i piedi e scavalcare con più facilità la barriera.
Un corridoio stretto separa lo steccato dai gradini, posti alla sua stessa altezza e gli spetta­tori che vi sono seduti sono protetti da una cor­da doppia fissata a dei robusti pioli. E una pre­cauzione che risale a qualche anno fa, quando un toro saltò la barriera, cosa che avviene abba­stanza spesso, e si lanciò su per i gradini, ucci­dendo o storpiando numerose persone. La corda tesa è ritenuta sufficiente a prevenire il ripetersi di simili incidenti.

Sull'arena si aprono quattro porte. Una comunica con le scuderie (toril), un'altra condu­ce alla macelleria (matadero), dove si scorticano e sezionano i tori. Le ultime due servono agli attori umani di questa tragedia.
Poco prima della corrida, i toreri si riunisco­no in una sala attigua all'arena. Accanto, ci sono le scuderie dei cavalli, più lontano c'è l'infermeria. Un chirurgo e un prete si tengono pronti nelle vicinanze a dare assistenza ai feriti.
La sala che serve da luogo d'incontro è orna­ta da una madonna dipinta, davanti alla quale bruciano alcune candele. Sotto, c'è un tavolo con un piccolo fornello contenente dei carboni accesi. Entrando, i toreri si levano il cappello davanti all'immagine, borbottano in fretta un pezzo di preghiera, poi prendono un sigaro dal­la tasca, lo accendono al fornello e fumano chiacchierando con i compagni e con gli appas­sionati, che vengono a discutere sui meriti dei tori che saranno affrontati quel giorno.

Nel frattempo, in un cortile interno i cavalie­ri (picador) che devono giostrare a cavallo, si preparano al combattimento provando i loro animali. Prima li lanciano al galoppo contro un muro, che colpiscono con una lunga pertica simile a una picca. Poi, senza abbandonare que­sto punto d'appoggio, addestrano le loro.montature a girarsi rapidamente, il più vicino possibile alla parete. Ben presto si vede quanto questo esercizio sia utile. I cavalli utilizzati sono dei ronzini di scarto, acquistati a basso prezzo. Per evitare che le grida della folla e la vista dei tori li impauriscano, vengono loro bendati gli occhi e riempite le orecchie di stoppa bagnata. L'aspetto del circo è molto animato. Prima dell'inizio del combattimento l'arena è piena di gente e i gradini e i palchi presentano una mas­sa confusa di teste. Vi sono due generi di posti: quelli all'ombra, che sono più cari e più comodi e quelli al sole, gremiti di intrepidi appassiona­ti. Si vedono meno donne che uomini e la mag­gior parte di esse appartiene alla classe delle manolas (sartine). Nei palchi si nota qualche abito elegante, ma poche donne giovani. I romanzi francesi e inglesi hanno da poco per­vertito gli Spagnoli e tolto loro il rispetto per le vecchie tradizioni.

Non credo che agli ecclesia­stici sia proibito assistere a questi spettacoli, però ne ho visto uno solo con l'abito talare, a Siviglia. Mi hanno detto, però, che molti ci van­no travestiti.
A un segnale del presidente della corrida, un alguazil mayor, accompagnato da due alguazil in costume da Crispino, tutti e tre a cavallo, seguiti da una compagnia di cavalleria, fanno evacuare l'arena e lo stretto corridoio che la separa dai gradini. Quando tutti si sono ritirati con il proprio seguito, un araldo, scortato da un notaio e da altri alguazil a piedi, va al centro del campo à leggere un bando che proibisce di get­tare oggetti nell'arena, di disturbare con grida o gesti i contendenti ecc. Ma appena egli compare, nonostante pronunci la rispettabile formula: "In nome del re, nostro signore, che Dio conservi a lungo..." si levano da ogni parte delle urla e dei fischi, che si prolungano fino alla fine della let­tura dei divieti che, d'altra parte, nessuno rispet­ta. Nel circo, e solo nel circo, il popolo.è sovra­no e può dire e fare tutto ciò che vuole.

Vi sono due classi principali di toreri: i pica­dor, che combattono a cavallo armati di una lan­cia, e i chulos, che sono a piedi e provocano il toro agitandogli davanti dei drappi dai colori brillanti. Fra questi ultimi ci sono i banderilleros e i matador, dei quali parlerò presto. Tutti porta­no il costume andaluso, simile a quello di Figaro nel Barbiere di Siviglia ma, al posto dei calzoni e delle calze di seta, i picador indossano dei panta­loni di cuoio spesso, con guarnizioni di legno e di ferro, che proteggono le gambe e le cosce dai colpi di corna. Essi sono costretti a camminare con le gambe aperte come le aste di un compas­so e se vengono disarcionati non possono rialzar­si senza l'aiuto dei chulos. Le loro selle sono molto alte, di forma turca, e le staffe di ferro coprono interamente il piede, come degli zocco­li. Per farsi ubbidire dai ronzini, hanno degli spe­roni con delle punte lunghe due pollici. La loro lancia è grossa e resistente e termina con una punta di ferro acuminata. Poiché, però, bisogna far durare il piacere, essa è decorata da una guarnizione di corda che lascia penetrare nel cor­po del toro soltanto un pollice di ferro per volta. Uno degli alguazil a cavallo raccoglie con il cappello la chiave gettatagli dal presidente dei giochi. È una chiave che non apre nessuna por­ta, che egli consegna all'uomo incaricato di apri­re il toril, prima di scappare al galoppo, accom­pagnato dalle urla della folla, che gli grida che il toro è uscito e lo sta inseguendo. Questo scher­zo si ripete a ogni corrida.

Nel frattempo, tutti i picador hanno raggiun­to i loro posti. Di solito, ce ne sono due a caval­lo dentro all'arena, e due o tre fuori, pronti a sostituire i compagni in caso di morte o di incidenti come fratture gravi. Sulla piazza, sono distribuiti una dozzina di chulos a piedi, a porta­ta per aiutarsi vicendevolmente.
Il toro, innervosito di proposito mentre è in gabbia con delle punture e delle frizioni di acido nitrico, esce fuori furioso. Di solito arriva di slancio fino al centro della piazza e là si arresta di colpo, stupito dal rumore e dalla scena che lo circonda. Sulla nuca ha dei nastri annodati e fis­sati a un piccolo uncino che gli entra nella pelle. Il colore dei nastri indica l'armento (vacada) da cui proviene, anche se un appassionato dall'oc­chio esperto riconosce immediatamente a quale provincia e a quale razza appartiene l'animale.

I chulos si avvicinano agitando le cappe dai colori squillanti e cercano di attirare il toro ver­so uno dei picador. Se la bestia è ardimentosa, non esita ad attaccare. Il picador si piazza davanti al toro, dopo aver riunito il cavallo, con la lancia sotto il braccio. Nel momento in cui l'animale abbassa la testa per colpire con le cor­na, il cavaliere lo trafigge con la lancia sulla nuca e non altrove, appoggiando sul colpo tut­to il peso e la forza del proprio corpo. Allo stes­so tempo fa partire il cavallo, in modo da lasciarsi il toro sulla destra. Se i movimenti sono ben eseguiti, se il picador è robusto e il cavallo docile, il toro, trascinato dalla propria impetuo­sità, passa oltre senza toccarli. Allora il compito dei chulos è quello di tenere occupato il toro, per dare al picador il tempo di allontanarsi. Spesso, però, l'animale, che riconosce bene chi lo ha ferito, si gira bruscamente, raggiunge in fretta il cavallo, gli conficca le corna nel ventre e lo atterra insieme al suo cavaliere. Questi viene subito soccorso dai chulos, che lo tirano su, mentre altri lanciano le cappe sulla testa del toro per distoglierlo e attirarlo verso di sé. Poi gli sfuggono guadagnando di corsa la barriera, che scavalcano con un'agilità sorprendente. I tori spagnoli corrono veloci quanto un cavallo e, se il chulo è lontano dalla barriera, ha difficoltà a scappare. Per questo è raro che i cavalieri, la cui vita dipende dall'abilità dei chulos, si spingano fino al centro della piazza. Quando lo fanno, il loro gesto è considerato straordinariamente audace.

Una volta rimesso in piedi, il picador rimon­ta subito a cavallo, se è riuscito a tirarsi su anche lui. Non importa che la povera bestia perda san­gue a fiotti, che le sue viscere si trascinino per terra e si attorciglino alle gambe. Finché un cavallo è in grado di muoversi, deve affrontare il toro. Se rimane a terra, il picador esce e rientra subito con un cavallo nuovo.
I colpi di lancia feriscono il toro in modo leggero e hanno più che altro l'effetto di irritar­lo. Sono gli scontri con il cavallo e il cavaliere, il movimento continuo che compie, i contraccolpi che riceve quando si ferma bruscamente sui gar­retti che lo affaticano abbastanza in fretta. Tal­volta il dolore causato dai colpi di lancia lo sco­raggia e non ha più la forza di attaccare o, per dirla nel gergo della tauromachia, rifiuta di entrare. Tuttavia, se è vigoroso, egli ha già ucci­so quattro o cinque cavalli. I picador allora si riposano e viene dato il segnale di lanciare le banderillas.

Sono dei bastoni di circa due piedi e mezzo, avvolti in carta traforata, terminanti con una punta aguzza e dentata per tenerli nella ferita. I chulos avanzano lentamente dietro il toro, tenendo in mano i dardi in attesa di piazzarli ed eccitando all'improvviso l'animale con il rumore delle banderillas percosse l'una contro l'altra. Il toro si gira, stupito, e carica senza esitare. Nel momento in cui l'animale abbassa la testa per colpire, il chulo, che è vicinissimo, quasi fra le corna del toro, gli affonda le banderillas ai due lati del collo. Poi si tira indietro velocemente e guadagna la barriera per mettersi al sicuro. Una distrazione, un movimento esitante o dettato dalla paura basterebbero a perderlo. Tuttavia, la funzione di banderillero è considerata la meno pericolosa dagli intenditori. Se per disgrazia egli cade mentre pianta le banderillas, non deve ten­tare di rialzarsi, ma restare immobile nel punto in cui è caduto. Raramente il toro colpisce chi è a terra, non per generosità, ma perché quando carica chiude gli occhi, perciò passa sull'uomo senza vederlo. Solo qualche volta si arresta, lo annusa come per assicurarsi che sia morto, poi indietreggia di qualche passo e abbassa la testa per incornarlo e sollevarlo in alto. Ma i compa­gni del banderillero gli stanno intorno, lo distraggono e lo costringono ad abbandonare il preteso cadavere.

Quando il toro ha mostrato vigliaccheria e si è sottratto, ai quattro canonici colpi di lancia, gli spettatori, giudici sovrani, lo condannano per acclamazione a una specie di supplizio che è allo stesso tempo un castigo e un modo di risvegliare la sua collera. Quando da tutte le parti si leva il grido di fuego! fuego! (fuoco! fuoco!), ai chulos vengono distribuite delle banderillas con il manico avvolto in materiale pirotecnico e con la punta decorata da un pezzo di esca accesa. Quando l'estremità aguzza penetra nella pelle, l'esca viene spinta verso la miccia e i razzi pren­dono fuoco. La fiamma brucia il toro nel vivo delle carni e gli fa fare dei salti e balzi, che divertono molto il pubblico. In effetti, vedere questo animale enorme, schiumante di rabbia, che si agita in mezzo al fumo e al fuoco e scuo­te le banderillas infuocate, è uno spettacolo mirabile. Devo dire, anche se i signori poeti non saranno d'accordo, che di tutti gli animali che ho osservato, nessuno ha meno espressione negli occhi o, meglio, nessuno cambia meno espres­sione del toro. La sua è quasi sempre quella del­la stupidità brutale e selvatica. Raramente egli esprime il dolore con dei gemiti. Le ferite lo irri­tano o lo spaventano ma, se così si può dire, non ha l'aria di riflettere sulla sua sorte. Non piange come il cervo e ispira pietà solo quando si fa notare per il suo coraggio.

Quando il toro ha sul collo tre o quattro paia di banderillas ed è giunto il momento di finirlo, si sente un rullio di tamburi. Subito, il matador, che è uno dei chulos designato in precedenza, esce dal gruppo dei compagni. E riccamente vestito, coperto d'oro e di seta, e tiene in mano una lunga spada e un drappo rosso attaccato a un bastone per maneggiarlo più facilmente. Il drap­po si chiama muleta. Avanza fin sotto il palco del presidente e, facendo un inchino profondo, gli chiede il permesso di ammazzare il toro. E una formalità che in genere avviene solo una vol­ta in tutto il combattimento. Il presidente, ovvia­mente, risponde di sì con un cenno del capo. Allora, il matador grida viva, fa una piroetta, getta a terra il cappello e va incontro al toro. Questi combattimenti, come i duelli, hanno delle regole. Infrangerle equivarrebbe a uccidere l'avversario a tradimento. Per esempio, il mata­dor può colpire il toro solo nel punto che gli Spagnoli chiamano la croce, dove la nuca è uni­ta al dorso. Il colpo deve essere inferto dall'alto, vale a dire in seconda, mai dal di sotto. E meglio morire che colpire il toro dal basso. I matador si servono di una spada lunga, robusta, con i due lati affilati e l'impugnatura molto corta, che termina con una rotondità alla quale si appoggia la mano. Per servirsi di quest'arma ci vuole un grande esercizio e un'abilità particolare.

Per uccidere bene un toro bisogna conoscer­ne il carattere. Da questa conoscenza dipende non solo la gloria, ma la vita del matador. Fra i tori, come fra gli uomini, vi sono tanti diversi caratteri, ma li si può dividere in due gruppi distinti: i chiari e gli oscuri, secondo il linguag­gio del circo. I chiari attaccano in modo diretto, mentre gli oscuri, che sono furbi e pericolosi, cercano di prendere a tradimento l'avversario. Prima di dare il colpo di spada, il matador presenta al toro la muleta, lo eccita, mentre osserva attentamente se le si precipita contro non appena la vede o se si avvicina lentamente per guadagnare terreno e caricare solo quando è troppo vicino per evitare di essere colpito. Spes­so si vede un toro scuotere la testa con aria minacciosa, grattare la terra col piede o persino indietreggiare a passi lenti, per attirare l'uomo al centro della piazza, dove non potrà sfuggirgli. Altre volte, anziché attaccare in linea retta, il toro si avvicina lentamente in direzione obliqua, facendo finta di essere affaticato. Ma non appena ha valutato la distanza, parte come una freccia. Per chi si intende un po' di tauromachia, osservare il duello del matador e del toro è uno spettacolo interessante. Sembrano due abili generali, che cercano di indovinare le intenzioni dell'altro e che cambiano a ogni istante le pro­prie manovre.

Per un matador esperto, un movi­mento della testa, uno sguardo di lato, un orec­chio che si abbassa sono segni non equivoci del­le intenzioni del nemico. Quando il toro impa­ziente si lancia contro il drappo rosso che copre il matador con un vigore tale che abbatterebbe un muro, l'uomo lo schiva con un leggero movi­mento del corpo e sparisce come per incanto lasciando dietro di sé solo il tessuto leggero sol­levato al di sopra delle corna dell'animale per sfidarne il furore. Il toro, nella sua impetuosità, oltrepassa di molto il suo avversario e si arresta bruscamente irrigidendo le gambe. Ma queste reazioni rapide e violente lo stancano a tal pun­to che basterebbe una simile manovra prolunga­ta a ucciderlo. Romero, il famoso professore, dice che un bravo matador deve uccidere otto tori con sette colpi di spada. L'ottavo muore di fatica e di rabbia.

Quando il matador pensa di conoscere bene il suo antagonista, si prepara a dargli l'ultimo colpo. Stando ben saldo sulle gambe, si mette di fronte a lui e lo attende immobile, a una distan­za adeguata. Il braccio destro, armato di spada, è piegato all'altezza del capo; il sinistro, teso in avanti, tiene la muleta che sfiora il terreno e spinge il toro ad abbassare la testa. E in questo momento che, con tutta la forza del braccio, aumentata dal peso del corpo e. dall'impetuosità stessa del toro, gli sferra il colpo mortale. La spada, lunga tre piedi, penetra fino all'elsa e, se il colpo è ben diretto, l'uomo non ha più nulla da temere. Il toro si arresta di colpo e alza la testa. Il sangue cola appena, le gambe gli trema­no. All'improvviso, cade pesantemente a terra. Subito, dai gradini si levano dei viva assordanti.
I fazzoletti si agitano, i cappelli dei majos volano nell'arena e l'eroe vincitore, con fare modesto, manda dei baci da tutte le parti.
Si dice che un tempo non si dava mai più di una stoccata, ma tutto degenera e oggi è raro che un toro cada al primo colpo. Se appare mor­talmente ferito, il matador non raddoppia. Aiu­tato dai chulos, fa girare l'animale in cerchio, eccitandolo con la cappa, in modo da stordirlo in poco tempo e farlo cadere. Poi, un chulo lo finisce con un colpo di pugnale assestato sulla nuca. L'animale spira all'istante.

Quasi tutti i tori hanno un punto prediletto dell'arena dove tornano sempre, che si chiama querencia e che di solito è la porta dalla quale sono entrati.
Spesso il toro attraversa la piazza a passi len­ti, con la spada fatale nel collo. Disdegna i chulos e i drappi con cui lo inseguono, pensa solo a morire tranquillo. Cerca il punto a cui è affezionato, s'inginocchia, si sdraia, adagia la testa e, se un colpo di pugnale non viene ad affrettare la sua fine, muore quietamente.
Se il toro si rifiuta di attaccare, il matador corre verso di lui e nel momento in cui l'anima­le abbassa la testa, lo trafigge con la spada (esto- cada de volapiè). Ma se non abbassa la testa o se continua a fuggire, si impiega un metodo molto crudele per ucciderlo. Un uomo gli taglia a tra­dimento i garretti con un ferro tagliente a forma di mezzaluna (media luna) fissato in cima a una pertica. Quando l'animale cade, viene finito con un colpo di pugnale. E un metodo che ripugna a tutti, una specie di assassinio. Fortunatamente, è raro che si debba arrivare a tanto per uccidere un toro.
Le fanfare annunciano la sua morte. Subito, tre muli aggiogati insieme entrano a gran trotto nel circo e lo portano via con l'aiuto di corde, agganciate con un uncino alle sue corna. In due minuti i cadaveri dei cavalli e quello del toro spariscono dall'arena.

Ogni combattimento dura circa venti minuti, e di solito, si uccidono otto tori in un pomerig­gio. Se il divertimento è stato modesto, su richie­sta del pubblico, il presidente delle corride ac­corda uno o due combattimenti supplementari.
Il mestiere del torero è abbastanza pericolo­so. Mediamente ne muoiono due o tre all'anno, in tutta la Spagna. Pochi di essi raggiungono la vecchiaia. Se non muoiono nel circo, sono obbli­gati a ritirarsi presto per via delle ferite. Il famo­so Pepe Illo ha ricevuto nella sua vita ventisei colpi di corna. L'ultimo, lo ha ucciso. Il salario abbastanza alto non è l'unico motivo che fa abbracciare a queste persone un, mestiere perico­loso. Sono la gloria e gli applausi a far loro sfi­dare la morte. E così dolce il trionfo davanti a cinque o seimila persone! E non è raro vedere appassionati di alti natali dividere i rischi e la gloria dei toreri di professione. A Siviglia ho visto un marchese e un conte assolvere le fun­zioni di matador.

Il pubblico è tutt'altro che indulgente verso i toreri. Il minimo segno di incertezza è punito da urla e fischi. Piovono ingiurie atroci da ogni par­te. A volte, un alguazil si avvicina al torero per ordine del pubblico e gli ingiunge, sotto minac­cia della prigione, di attaccare al più presto il toro. E il segno più terribile dell'indignazione popolare.
Un giorno l'attore Maiquez, indignato di vedere un matador esitare davanti al più oscuro dei tori, lo coprì di ingiurie. "Vedete, signor Maiquez — gli rispose il matador — qui non si tratta di finzione, come sul palcoscenico!"
Gli applausi e il desiderio di crearsi una fama o di conservare quella che si ha obbligano i toreri ad aumentare i pericoli ai quali sono natural­mente esposti. Pepe Illo e Romero si presentava­no al toro con dei ferri ai piedi. II sangue freddo dimostrato da questi uomini quando il pericolo incombeva ha qualcosa di miracoloso.

Recente­mente un picador, Juan Sevilla, è stato disarcio­nato e il suo cavallo sventrato da un toro anda­luso, dotato di una forza e di una agilità prodi­giose. Questo toro, anziché lasciarsi distrarre dai chulos, si accaniva sull'uomo, calpestandolo e dandogli un gran numero di colpi di corna sulle gambe. Poi, accorgendosi che erano molto ben protette dai pantaloni di cuoio decorati in ferro, si girò e abbassò la testa per affondargli le corna nel ventre. Allora Sevilla, rialzandosi con uno sforzo disperato, afferrò con una mano il toro per un orecchio, gli cacciò le dita dell'altra nelle narici, tenendo sempre la testa incollata sotto a quella della bestia furiosa. Il toro lo scosse, lo calpestò, lo sbatté contro il terreno, ma invano, non riuscì a fargli abbandonare la presa. Tutti guardavano con una stretta al cuore quella lotta impari. Era l'agonia di un coraggioso e si rim­piangeva persino che essa si prolungasse. Non si poteva urlare, né respirare, né distogliere lo sguardo da quella scena orribile, che durò quasi due minuti. Alla fine il toro, vinto dall'uomo in questo combattimento corpo a corpo, lo abban­donò per inseguire i chulos. Tutti si aspettavano di vedere Sevilla portato fuori dal recinto a brac­cia. Lo si aiutò a rialzarsi ma, appena in piedi, egli afferrò una cappa e volle attirare il toro, malgrado gli enormi stivali e la scomoda arma­tura sulle gambe. Fu necessario stappargli il drappo, altrimenti quella volta si sarebbe fatto ammazzare. Gli venne portato un cavallo; lui montò di slancio, ribollente di collera, e attaccò il toro al centro della piazza. Lo scontro di que­sti due valenti avversari fu così terribile che il cavallo e il toro caddero sulle ginocchia. Oh! Se aveste sentito i viva! se aveste visto la gioia fre­netica e l'ebbrezza della folla nel constatare tan­to coraggio e tanta fortuna, voi avreste invidiato come me il destino di Sevilla! Quest'uomo è diventato immortale a Madrid…

Giugno 1842 P.S. - Ahimè! Cosa sono venuto a sapere! Francisco Sevilla è morto l'anno scorso. Non nel circo, come avrebbe dovuto, ma per una malat­tia del fegato. È morto a Caravancel, vicino a quei bellissimi alberi che amo tanto, ma lontano dal pubblico per il quale egli aveva tante volte rischiato la vita.
Lo avevo rivisto nel 1840 a Madrid, sempre bravo, sempre temerario come al tempo in cui scrivevo la lettera precedente. Più di venti volte l'ho visto rotolare nella polvere sotto al cavallo sventrato, spezzare un numero infinito di lance e attaccare di forza i terribili tori di Gaviria. "Se Francesco Sevilla avesse avuto le corna - si dice­va nell'ambiente del circo - nessun torero avreb­be osato mettersi davanti a lui." L'abitudine alla vittoria lo aveva reso straordinariamente audace. Quando era davanti a un toro, si indignava se la bestia non averla paura di lui. "Non mi conosci dunque?" le gridava con furore. Poi le mostrava subito con chi aveva a che fare.

I miei amici mi procurarono il piacere di cenare con Sevilla, che mangiava e beveva come un eroe omerico. Era il compagno più allegro che si potesse incontrare, un colosso le cui maniere andaluse, lo spirito gioviale e il patois pieno di pittoresche metafore avevano una gra­devolezza tutta particolare. Sembrava essere sta­to creato per sterminare tutto.
Una signora spagnola, fuggita da Madrid nei giorni del colera, si era ritrovata sulla stessa dili­genza per Barcellona sulla quale viaggiava Sevilla, impegnato in una corrida annunciata molto tempo prima. Durante il viaggio, la gentilezza, la galanteria e le piccole attenzioni di Sevilla non vennero meno un solo istante. Quando giunsero nei pressi di Barcellona, la giunta sanitaria, stu­pida come lo sono tutte le giunte, annunciò ai viaggiatori dieci giorni di quarantena obbligato­ria. Il provvedimento non valeva per Sevilla, la cui presenza era troppo desiderata perché le leg­gi sanitarie valessero anche per lui. Ma il gene­roso picador rifiutò l'eccezione a suo vantaggio. "Se la signora e i miei compagni non avranno libertà di movimento - disse risolutamente - io non combatterò!"
Fra la paura del contagio e quella di perdere una bella corrida, la giunta non ebbe esitazioni. Cedette e fece bene perché, se si fosse ostinata, la folla avrebbe appiccato il fuoco al lazzaretto e ai suoi occupanti.

Dopo aver pagato il mio tributo di lodi e di rimpianti ai mani di Sevilla, devo parlare di un'altra gloria che oggi non ha rivali nel circo. In Francia si sa poco di quello che succede in Spagna e può darsi che, al di qua dei Pirenei, vi siano delle persone che non conoscono il nome di Montès.
Tutto quello che l'opinione pubblica ha dif­fuso di vero e di falso sui matador classici come Pepe Illo e Pablo Romero, Montès lo fa vedere tutti i lunedì nel circo nazionale, come si chia­ma oggi. Egli riunisce in sé coraggio, grazia, sangue freddo e abilità meravigliosa. La sua pre­senza nel circo anima e trasporta attori e spetta­tori. Non vi sono più cattivi tori né chulos timi­di. Ognuno supera se stesso e i toreador di dub­bio coraggio diventano degli eroi quando sono guidati da Montès, perché sanno che con lui non corrono pericoli. Basta un suo gesto per distogliere il toro più furioso nel momento in cui sta per incornare un picador a terra. Nelle piazze dove Montès ha combattuto non si è mai vista la media luna. Chiari, oscuri, per lui i tori vanno tutti bene. Li incanta, li trasforma, li uccide come e quando vuole. E il primo mata­dor che ho visto gallear el toro, cioè mettersi di schiena davanti all'animale infuriato per farlo passare sotto al braccio. Quando il toro si preci­pita su di lui, egli gira appena la testa. Talvolta, dopo essersi gettato la cappa sulle spalle, attra­versa il circo seguito dal toro. La bestia, furen­te, insegue Montès senza riuscire a raggiunger­lo, pur essendo talmente vicina da sollevare il mantello con colpi di corna. La fiducia che Montès ispira è tale che gli spettatori non han­no l'idea di pericolo, provano solo ammirazio­ne.

Montès ha fama di non avere un'opinione favorevole dell'attuale ordine di cose. Si dice che sia stato un volontario realista e che sia un écrevisse, cangrejo, cioè un moderato. Forse i buoni patrioti se ne affliggono, ma non possono sot­trarsi all'entusiasmo generale. Ho visto dei descalzos (sanculotti) gettargli con 'trasporto il cappello supplicandolo di metterselo in testa per un attimo, secondo un'usanza che risale al sedi­cesimo secolo. Da qualche parte Brantóme dice: "Ho conosciuto molti gentiluomini che, prima di indossare le calze di seta, pregano le loro signore e amanti di provarle e di tenerle per almeno otto o dieci giorni; poi, le portano con grande venerazione e contentezza di spirito e di corpo".
Montès ha fama di essere un uomo come si deve. Vive nobilmente e si dedica alla famiglia a cui, con il suo talento, ha assicurato l'avvenire. A qualche torero non piacciono, per invidia, i suoi modi aristocratici. Mi ricordo che, quando invi­tammo Sevilla, lui rifiutò di cenare con noi. In quell'occasione, Sevilla espresse con l'abituale franchezza la sua opinione su Montès: ”Montes no fue realista; es buen comparsero, luciente matador, atiende los picadores, pero es un p... ”. Questo perché, fuori dal circo, egli porta il frac, non va al cabaret e ha delle buone maniere. Sevilla è il Mario della tauromachia,
Montès è il Cesare.





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